Morte e Giudizio
Per sapere qual è il destino dopo la morte bisogna innanzitutto considerare correttamente come sia fatto l'uomo. Esso è composto di un corpo, molto simile al corpo di altri animali, e di un'anima, un principio spirituale sede dell'intelligenza e della volontà, che appunto anima il corpo, e senza la quale non c'è un uomo ma un cadavere che presto va in putrefazione. A differenza dagli animali, l'anima umana è spirituale ed immortale, non si identifica con il corpo, anche se entrambi sono necessari perché ci sia l'essere umano nella sua interezza.
Durante la vita su questa terra l'uomo ha la possibilità, grazie alla ragione e alla volontà, di compiere il bene od il male, ed è sempre in tempo a scegliere, fino all'ultimo istante, tra il Regno di Dio e Satana. Al momento della morte - come insegna la Costituzione Apostolica Benedictus Deus nel 1336 - l'anima abbandona il corpo e non può più decidersi pro o contro Dio, ma viene giudicata in base alle scelte fatte fino ad allora. È il momento della verità, nel quale non si può ingannare il Giudice divino ne se stessi.
Dallo stato in cui si viene trovati al momento della morte si decide la nostra sorte eterna: il Paradiso, l'eterna beatitudine di stare al cospetto del nostro Padre, Creatore e Salvatore in comunione con i fratelli, oppure l'infinita sofferenza dell'Inferno, in compagnia di Satana, dei demoni e dei dannati. Un istante dopo la morte avviene il giudizio e la sentenza: o salvati o perduti, senza possibilità di un secondo grado di giudizio. Il Purgatorio non è una via intermedia, perché - come vedremo - è già la dimensione della salvezza. L'idea della reincarnazione, con la quale si toglie la responsabilità e il valore delle scelte morali nella vita, è rigettata come falsa dall'insegnamento cristiano (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1013 ed Eb 9,27). Dovremo rendere conto davanti a Dio, davanti ai fratelli, cui abbiamo fatto del bene o del male, e davanti a noi stessi. Il nostro Giudice sarà Gesù (Gv 5,26-27), che proprio perché ha fatto esperienza della vita umana, conosce la nostra fragilità e meschinità: non lo si potrà ingannare, ma sarà un giudice benevolo, perché è il nostro Salvatore. Prima del Giudizio Universale i destini sono tre: Inferno, Purgatorio o Paradiso. Dopo il Giudizio universale, il Purgatorio sparirà.
Ma proviamo ad analizzare nello specifico i due novissimi.
LA MORTE
La morte è la separazione dell'anima dal corpo, per cui si dissolve l'unione vitale del composto umano. Solo il corpo muore, cioè si scompone nei suoi elementi: l'anima è immortale, poiché - come spirito - è semplice e indecomponibile.
La morte del corpo è dunque naturale, come la morte di qualunque altro essere materiale; però, nel presente stato di cose, la morte è anche pena del peccato originale. Dio infatti aveva arricchito del privilegio preternaturale dell'immortalità i nostri progenitori e con loro tutti i discendenti (Sap. II, 23). Con la trasgressione del comando divino (Gen. II, 17) si introdusse nel mondo la morte (Rom. 5, 12).
Eccettuati i casi di resurrezione di cui parla il Vangelo e quelli attestati dalla storia, si muore una volta sola: dopo di che avviene il giudizio irrevocabile, che fissa o destini di ognuno per l'eternità (Heb. 9, 27).
Nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo:
1020 Per il cristiano, che unisce la propria morte a quella di Gesù, la morte è come un andare verso di lui ed entrare nella vita eterna. Quando la Chiesa ha pronunciato, per l'ultima volta, le parole di perdono dell'assoluzione di Cristo sul cristiano morente, l'ha segnato, per l'ultima volta, con una unzione fortificante e gli ha dato Cristo nel viatico come nutrimento per il viaggio, a lui si rivolge con queste dolci e rassicuranti parole:
« Parti, anima cristiana, da questo mondo, nel nome di Dio Padre onnipotente che ti ha creato, nel nome di Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, che è morto per te sulla croce, nel nome dello Spirito Santo, che ti è stato dato in dono; la tua dimora sia oggi nella pace della santa Gerusalemme, con la Vergine Maria, Madre di Dio, con san Giuseppe, con tutti gli angeli e i santi. [...] Tu possa tornare al tuo Creatore, che ti ha formato dalla polvere della terra. Quando lascerai questa vita, ti venga incontro la Vergine Maria con gli angeli e i santi. [...] Mite e festoso ti appaia il volto di Cristo e possa tu contemplarlo per tutti i secoli in eterno ».
IL GIUDIZIO
Il giudizio è la sentenza irrevocabile che Dio pronunzierà su ciascuno dopo la morte, onde assegnare il premio o il castigo che l'uomo si è meritato. Il giudizio è duplice: particolare ed universale.
A. IL GIUDIZIO PARTICOLARE
Il Giudizio particolare avviene per ogni anima subito dopo la morte ed in esso si fisserà per sempre il destino di ognuno, senza che vi sia più luogo a penitenza. Questa dottrina è affermata e definita nel Concilio Lionese II (1274), nella Bolla Benedictus Dominus di Benedetto XII (1336) e nel Concilio Basileense-Ferrarese-Fiorentino (1431-1439). In questi documenti si afferma che i giusti ed i malvagi saranno subito (mox) ricevuti o nel Paradiso o nell'Inferno; ciò suppone evidentemente un giudizio discernitivo. Anche la Sacra Scrittura è chiarissima in merito: «E' stabilito che gli uomini vivano una volta sola, dopo di che ci sarà il Giudizio» (Heb. 9, 27 e Lc. 16, 19-31; II Tim. 1, 23; ibid. 4, 6-8).
La Tradizione, fin dal IV sec., insegna chiaramente che un Giudizio seguirà alla morte di ognuno. Sant'Agostino distingue con precisione un primo Giudizio, quando le anime escono dai loro corpi, ed un altro quando si riuniranno ad essi (De anima et ejus origine, II. c. 4, n. 8). Sant'Ilario specifica che con il Giudizio inizia la retribuzione: «Il giorno del Giudizio è la retribuzione eterna della felicità o della pena» (Tract. super Psalmos, II, 49).
In questo Giudizio non vi sarà nessuna discussione, come avviene invece nei giudizi umani: l'anima, internamente illuminata, vedrà tutti i suoi meriti o demeriti, intuirà la sentenza del Giudice e da se stessa, come seguendo il peso del suo destino, la manderà ad effetto.
Nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo:
I. Il giudizio particolare
1021 La morte pone fine alla vita dell'uomo come tempo aperto all'accoglienza o al rifiuto della grazia divina apparsa in Cristo. Il Nuovo Testamento parla del giudizio principalmente nella prospettiva dell'incontro finale con Cristo alla sua seconda venuta, ma afferma anche, a più riprese, l'immediata retribuzione che, dopo la morte, sarà data a ciascuno in rapporto alle sue opere e alla sua fede. La parabola del povero Lazzaro e la parola detta da Cristo in croce al buon ladrone così come altri testi del Nuovo Testamento parlano di una sorte ultima dell'anima che può essere diversa per le une e per le altre.
1022 Ogni uomo fin dal momento della sua morte riceve nella sua anima immortale la retribuzione eterna, in un giudizio particolare che mette la sua vita in rapporto a Cristo, per cui o passerà attraverso una purificazione, o entrerà immediatamente nella beatitudine del cielo, oppure si dannerà immediatamente per sempre.
« Alla sera della vita, saremo giudicati sull'amore ».
B. IL GIUDIZIO UNIVERSALE
Avverrà alla fine del mondo, dopo la generale resurrezione dei morti, quando tutti gli uomini compariranno davanti al tribunale di Cristo, per attestare che Egli è il trionfatore dei secoli. E' questa una verità di fede, contenuta nei vari Simboli: «judicare vivos et mortuos». Cristo stesso nel suo Vangelo ce ne dà un'impressionante descrizione (Mt. 15); San Paolo ne parla più volte (Rom. 14, 10; II Cor. 5, 10; II Thess. 1, 2; II Tim. 4, 1 ecc.). Sant'Agostino si dilunga molto su questa verità nel De civitate Dei (XX, c. 30).
La persona del Giudice sarà Cristo Uomo, il quale comparirà sulle nubi del cielo, accompagnato dai suoi Angeli, con grande potenza e maestà: esaminerà tutta la vita morale di ognuno, che sarà probabilmente resa nota a tutti e con una illuminazione manifesterà la sentenza finale, che aprirà per sempre ai predestinati le porte del Paradiso ed ai reprobi quelle dell'Inferno (Mt. 25, 46).
Nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo:
V. Il giudizio finale
1038 La risurrezione di tutti i morti, « dei giusti e degli ingiusti » (At 24,15), precederà il giudizio finale. Sarà « l'ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce [del Figlio dell'uomo] e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna » (Gv 5,28-29). Allora Cristo « verrà nella sua gloria, con tutti i suoi angeli [...]. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. [...] E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna » (Mt 25,31-33.46).
1039 Davanti a Cristo che è la verità sarà definitivamente messa a nudo la verità sul rapporto di ogni uomo con Dio. Il giudizio finale manifesterà, fino alle sue ultime conseguenze, il bene che ognuno avrà compiuto o avrà omesso di compiere durante la sua vita terrena:
« Tutto il male che fanno i cattivi viene registrato a loro insaputa. Il giorno in cui Dio non tacerà (Sal 50,3) [...] egli si volgerà verso i malvagi e dirà loro: Io avevo posto sulla terra i miei poverelli, per voi. Io, loro capo, sedevo nel cielo alla destra di mio Padre, ma sulla terra le mie membra avevano fame. Se voi aveste donato alle mie membra, il vostro dono sarebbe giunto fino al capo. Quando ho posto i miei poverelli sulla terra, li ho costituiti come vostri fattorini perché portassero le vostre buone opere nel mio tesoro: voi non avete posto nulla nelle loro mani, per questo non possedete nulla presso di me ».
1040 Il giudizio finale avverrà al momento del ritorno glorioso di Cristo. Soltanto il Padre ne conosce l'ora e il giorno, egli solo decide circa la sua venuta. Per mezzo del suo Figlio Gesù pronunzierà allora la sua parola definitiva su tutta la storia. Conosceremo il senso ultimo di tutta l'opera della creazione e di tutta l'Economia della salvezza, e comprenderemo le mirabili vie attraverso le quali la provvidenza divina avrà condotto ogni cosa verso il suo fine ultimo. Il giudizio finale manifesterà che la giustizia di Dio trionfa su tutte le ingiustizie commesse dalle sue creature e che il suo amore è più forte della morte.
1041 Il messaggio del giudizio finale chiama alla conversione fin tanto che Dio dona agli uomini « il momento favorevole, il giorno della salvezza » (2 Cor 6,2). Ispira il santo timor di Dio. Impegna per la giustizia del regno di Dio. Annunzia la « beata speranza » (Tt 2,13) del ritorno del Signore il quale « verrà per essere glorificato nei suoi santi ed essere riconosciuto mirabile in tutti quelli che avranno creduto » (2 Ts 1,10).
Infine riporto una bella catechesi tenuta da San Giovanni Paolo II in occasione di un'udienza generale (7 luglio 1999):
Giudizio e misericordia
1. Si legge nel Salmo 116: “Buono e giusto è il Signore, il nostro Dio è misericordioso” (v. 5). A prima vista giudizio e misericordia sembrerebbero due realtà inconciliabili, o almeno la seconda sembra integrarsi con la prima solo se questa attutisce la propria forza inesorabile. Occorre invece capire la logica della Sacra Scrittura, che le lega assieme e anzi le presenta in modo che l’una non possa esistere senza l’altra.
Il senso della giustizia divina è colto progressivamente nell’Antico Testamento a partire dalla situazione di colui che ha agito bene e si sente ingiustamente minacciato. Egli trova allora in Dio rifugio e difesa. Questa esperienza è espressa più volte nei salmi che, ad esempio, affermano: “So che il Signore difende la causa dei miseri, il diritto dei poveri. Sì, i giusti loderanno il tuo nome, i retti abiteranno alla tua presenza” (Sal 140, 13-14).
L’intervento a favore degli oppressi, è concepito dalla Scrittura soprattutto come giustizia, ossia fedeltà di Dio alle promesse salvifiche fatte ad Israele. Una giustizia, dunque, quella di Dio, derivante dall’iniziativa gratuita e misericordiosa con cui egli si è legato al suo popolo in un’alleanza eterna. Dio è giusto perché salva, adempiendo così le sue promesse, mentre il giudizio sul peccato e sugli empi non è che il risvolto della sua misericordia. Su questa giustizia misericordiosa può sempre fare affidamento il peccatore sinceramente pentito (cfr Sal 51, 6.16).
Di fronte alla difficoltà di trovare giustizia negli uomini e nelle loro istituzioni, nella Bibbia si fa strada la prospettiva che la giustizia si realizzerà pienamente solo in futuro, attraverso l’opera di un personaggio misterioso, che progressivamente assumerà connotati “messianici” più precisi: un re o figlio di re (cfr Sal 72, 1), un germoglio che “spunterà dal tronco di Iesse” (Is 11, 1), un “germoglio giusto” discendente di Davide (Ger 23, 5).
2. La figura del Messia, adombrata in molti testi soprattutto dei libri profetici, assume, nell’ottica della salvezza, le funzioni del governo e del giudizio, per la prosperità e la crescita della comunità e dei suoi singoli componenti.
La funzione giudiziaria si eserciterà sui buoni e sui malvagi, che si presenteranno insieme in giudizio, dove il trionfo dei giusti si trasformerà in spavento e stupore per gli empi (cfr Sap 4,20-5,23; cfr anche Dn 12, 1-3). Il giudizio affidato al “Figlio dell’uomo”, nella prospettiva apocalittica del libro di Daniele, avrà come effetto il trionfo del popolo dei santi dell’Altissimo sulla rovina dei regni della terra (cfr Dn 7, spec. vv. 18 e 27).
D'altra parte, anche chi può aspettarsi un giudizio benevolo, è consapevole dei propri limiti. Emerge così la coscienza che è impossibile essere giusti senza la grazia divina, come il Salmista ricorda: “Signore . . . per la tua giustizia rispondimi. Non chiamare in giudizio il tuo servo: nessun vivente davanti a te è giusto” (Sal 143, 1-2).
3. La stessa logica di fondo si ritrova nel Nuovo Testamento, dove il giudizio divino è legato all’opera salvifica di Cristo. Gesù è il Figlio dell’uomo al quale il Padre ha trasmesso il potere di giudicare. Egli eserciterà il giudizio su quanti usciranno dai sepolcri, separando quanti sono destinati ad una risurrezione di vita da quanti sperimenteranno una risurrezione di condanna (cfr Gv 5, 26-30). Tuttavia, come sottolinea l’evangelista Giovanni, “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (3, 17). Soltanto chi avrà rifiutato la salvezza, offerta da Dio con una misericordia sconfinata, si troverà condannato, perché si sarà autocondannato.
4. San Paolo approfondisce in senso salvifico il concetto di “giustizia di Dio”, che si realizza “per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono” (Rm 3, 22). La giustizia di Dio è intimamente connessa con il dono della riconciliazione: se attraverso Cristo ci lasciamo riconciliare con il Padre, possiamo diventare anche noi, per mezzo di lui, giustizia di Dio (cfr 2 Cor 5, 18-21). Giudizio e misericordia vengono così compresi come due dimensioni dello stesso mistero d’amore: “Dio infatti ha racchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia” (Rm 11, 32). L’amore, che sta alla base dell’atteggiamento divino e deve diventare una virtù fondamentale del credente, ci spinge perciò ad avere fiducia nel giorno del giudizio, escludendo ogni timore (cfr 1 Gv 4, 18). Ad imitazione di questo giudizio divino, anche quello umano deve essere esercitato secondo una legge di libertà, nella quale deve prevalere appunto la misericordia: “Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio” (Gc 2, 12-13).
5. Dio è Padre di misericordia e di ogni consolazione. Per questo nella quinta domanda della preghiera per eccellenza, il ‘Padre nostro’, “la nostra richiesta inizia con una ‘confessione’, con la quale confessiamo ad un tempo la nostra miseria e la sua misericordia” (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2839). Svelandoci la pienezza della misericordia del Padre, Gesù ci ha anche insegnato che a questo Padre così giusto e misericordioso si ha accesso solo attraverso l’esperienza della misericordia che deve contraddistinguere i nostri rapporti con il prossimo. “Questo flusso di misericordia non può giungere al nostro cuore finché noi non abbiamo perdonato a chi ci ha offeso… Nel rifiuto di perdonare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle, il nostro cuore si chiude e la sua durezza lo rende impermeabile all’amore misericordioso del Padre” (CCC n. 2840).
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IL GIUDIZIO nell'Enciclica di Papa Benedetto XVI
"Spe Salvi"
La prospettiva del giudizio – di cui parla Benedetto XVI nell’Enciclica “Spe Salvi”, n. 41 – è il criterio secondo cui i cristiani sono chiamati ad ordinare la vita presente come speranza nella giustizia di Dio.
“La fede in Cristo non ha mai guardato solo indietro, né mai solo verso l’alto, ma sempre anche in avanti verso l’ora della giustizia che il Signore aveva ripetutamente preannunciato” (Spe salvi, 41).
Iconograficamente, nel concetto di giustizia è stato sempre messo in risalto l’aspetto minaccioso e lugubre del giudizio. Ciò ha affascinato gli artisti molto di più rispetto allo splendore della speranza. In molte rappresentazioni artistiche che mettono a tema il giudizio universale prevale la minaccia del giudizio di Dio.
La fede nel giudizio finale – afferma J. Ratzinger – è innanzitutto e soprattutto speranza.
“La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza (cfr Ef 2,12). Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa. L'immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un'immagine terrificante, ma un'immagine di speranza; per noi forse addirittura l'immagine decisiva della speranza. Ma non è forse anche un'immagine di spavento? Io direi: è un'immagine che chiama in causa la responsabilità. Un'immagine, quindi, di quello spavento di cui sant'Ilario dice che ogni nostra paura ha la sua collocazione nell'amore [35].
Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto. Ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s'è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore. Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione, per esempio, Dostoëvskij nel suo romanzo « I fratelli Karamazov ». I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato.
Vorrei a questo punto citare un testo di Platone che esprime un presentimento del giusto giudizio che in gran parte rimane vero e salutare anche per il cristiano. Pur con immagini mitologiche, che però rendono con evidenza inequivocabile la verità, egli dice che alla fine le anime staranno nude davanti al giudice. Ora non conta più ciò che esse erano una volta nella storia, ma solo ciò che sono in verità.
«Ora [il giudice] ha davanti a sé forse l'anima di un [...] re o dominatore e non vede niente di sano in essa. La trova flagellata e piena di cicatrici provenienti da spergiuro ed ingiustizia [...] e tutto è storto, pieno di menzogna e superbia, e niente è dritto, perché essa è cresciuta senza verità. Ed egli vede come l'anima, a causa di arbitrio, esuberanza, spavalderia e sconsideratezza nell'agire, è caricata di smisuratezza ed infamia. Di fronte a un tale spettacolo, egli la manda subito nel carcere, dove subirà le punizioni meritate [...] A volte, però, egli vede davanti a sé un'anima diversa, una che ha fatto una vita pia e sincera [...], se ne compiace e la manda senz'altro alle isole dei beati » [36].Gesù, nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (cfr Lc 16,19-31), ha presentato a nostro ammonimento l'immagine di una tale anima devastata dalla spavalderia e dall'opulenza, che ha creato essa stessa una fossa invalicabile tra sé e il povero: la fossa della chiusura entro i piaceri materiali, la fossa della dimenticanza dell'altro, dell'incapacità di amare, che si trasforma ora in una sete ardente e ormai irrimediabile. (Spe salvi, 44).
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